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Il ReazionariO

SORTES SANCTORUM

| Anima, Corpo, Spirito | Tags: , , , , , | Autori di riferimento:

Attimo, Nulla, Esistenza, Morte: divagazioni.

Aprendo Così parlò Zarathustra mi è toccata in sorte la pagina 183, la prima capitata fra le dita, senza guardare. Non si poteva pretendere di meglio dal caso, si tratta infatti di una porzione del fondamentale capitolo la visione e l’enigma.

Ma l’uomo è l’animale più coraggioso: perciò egli ha superato tutti gli altri animali.
Allo squillar di fanfare egli ha superato anche tutte le sofferenze;
la sofferenza dell’uomo è però, la più profonda di tutte le sofferenze.

Queste sono le prime righe della pagina che tengo lacerata nelle mie mani: non si tratta di semplici vocaboli stampati su un foglio. Ogni singola parola provoca un eco dentro di me, un suono simile a quello di un rintocco. “La sofferenza dell’uomo è però, la più profonda di tutte le sofferenze” è la frase che rimane fissa tra i pensieri. “La sofferenza dell’uomo”: come non pensare alle sofferenze del fisico (corpo) che rendono a volte il corpo una carcassa difficile da accettare, sofferenze e dolori che incidono indiscutibilmente anche sulla mente (anima), dolori che accompagnano, per breve o per lungo tempo, il momento del trapasso, un passaggio necessario in cui l’essenza (spirito) di ognuno di noi trova il suo ristoro definitivo.

Il coraggio ammazza anche la vertigine in prossimità degli abissi:
e dove mai l’uomo non si trova vicino ad abissi!
Non è la vista già di per sé un – vedere abissi?

Il Coraggio in certi uomini è una caratteristica costante, per essi non è un’opzione alla quale attingere a seconda delle occasioni, rappresenta piuttosto un modo di essere, sempre presente in ogni ambito dell’esistenza. L’abisso di Nietzsche non è definibile come un mal di vivere, l’abisso “che ti guarda” è quel nulla di fronte al quale egli non si è mai arreso, quel niente in cui il pensatore si è sentito immerso e dal quale è riemerso con il lampo del Così parlò Zarathustra e la sua metafisica della volontà di potenza. Ma l’aver guardato l’abisso, l’aver intuito prima di tutti il compimento del nichilismo ha comportato in lui una disarticolazione interiore. Non solo in lui, dico io: è il destino che spetta agli intuitori, agli anticipatori. Un destino che alle volte nemmeno il coraggio riesce ad affrontare.

Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione.
Ma la compassione è l’abisso più fondo:
quanto l’uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l’affonda nel dolore.

La lettura prosegue e parola dopo parola ripercorro concetti familiari e tuttavia ancora, in parte, oscuri: “compassione”, “abisso”, “dolore” suonano come tamburi nella mia testa. Affondare “la vista nella vita” poterne scandagliare tutte le pieghe, guardare negli occhi il nichilismo: “non serve a niente metterlo alla porta – ammonisce infatti Heidegger – perché ovunque, già da tempo, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è scorgerlo e guardarlo bene in faccia”. Scrutare l’abisso, imprimere la vita nell’esistenza, osservarla, sino a scorgere la linea di demarcazione, il limite massimo di espansione del nulla, il meridiano zero. Scegliere se oltrepassare la linea (Junger) o se fermarsi ad osservarla (Heidegger), in ogni caso si tratta di cogliere il nichilismo nella fase stessa del suo dispiegamento. Il rischio per un pensiero non preparato è di affondare nel dolore.

“Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti.
Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.
Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità.
E quella lunga via fuori della porta e avanti – è un’altra eternità.
Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: “attimo”.

Ed eccolo il centro della questione, l’eterno ritorno, raffigurato nella mia mente come un’immensa ruota dai due percorsi, l’uno in un verso l’altro in quello contrario che si incontrano ed intersecano in un punto unico: l’attimo. Non è forse la morte un attimo? Essa infatti non è né quella che noi chiamiamo esistenza, in cui l’essere assume una forma materiale, né quella che noi chiamiamo vita nell’aldilà in cui l’essere assume uno stato diverso. La morte è un attimo: “in quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo dell’Essere” sostiene Heidegger. La morte è l’attimo di non-vita il che non significa trasformazione in nulla: semplicemente non-vita prima di riassumere forma in altro stato dell’esistenza ultraterrena. Attimo, morte: un istante fulmineo che si pone al centro dell’eternità (in mezzo ai due percorsi contrari e convergenti) una scintilla dell’assoluto. Nell’attimo non solo la ripetitività (il samsara indù) si arresta, ma la stessa totalità si annulla, nell’attimo non vi è tempo. Graficamente è rappresentabile in un punto: “il punto a cui tutti li tempi son presenti” (Dante, canto XVII, Paradiso) Dominatore dell’attimo, e della morte come estrema manifestazione dell’attimo, è il silenzio. Il silenzio è la non-espressione (non l’inespressività!), è la rinuncia alla dialettica, alla parola: l’attimo è il pensiero. Continui attimi quindi girano eternamente nella nostra testa senza la possibilità di arrestarsi, senza la possibilità di “morire”, di fermarsi un istante per poi trasformarsi e rinascere. L’attimo come momento di arresto del ciclo dell’eterno ritorno, la morte come estrema estrinsecazione dell’attimo, il pensiero come più alta espressione dell’attimo e del suo continuo sfuggirci: “momento di autonomia che non si lascia afferrare” lo definisce Scaligero. Fruire dell’attimo è vivere un passaggio: morte è un passaggio macrocosmico (tra una forma dell’essere ed un’altra), pensiero è un passaggio microcosmico tra un concetto ed un altro. Possedere l’attimo è possedere l’intuizione, la consapevolezza, è realizzare il “nosce te ipsum” degli antichi che infatti ponevano straordinaria importanza al come morire più che al come sopravvivere.

*

Mi è toccata in sorte questa pagina. Si badi bene che la sorte non è la fortuna. La sorte è una forza impersonale, imponderabile per gli uomini che nulla possono contro di essa. Gli antichi cristiani, riprendendo una forma di divinazione ancor più remota ed arcaica, applicavano in specifiche situazione la sortes sanctorum: aprivano casualmente la Bibbia, il primo passaggio che colpiva l’occhio della persona che aveva aperto il testo avrebbe reso una risposta o una soluzione, manifesta o simbolica, alla questione posta dall’interrogatore. Aprendo Così parlò Zarathustra mi è toccata in sorte la pagina 183, la prima capitata fra le dita, senza guardare.
Il fuoco brucerà questa pagina strappata, il vento disperderà la sua cenere ed il fumo si confonderà col cielo stellato sopra di me.

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