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Il Canto del Divino

La Bhagavadgītā (sanscrito, sf.pl., “Canto del Divino” o “Canto dell’Adorabile” o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā, “Meraviglioso canto del Divino”) è quella parte dall’importante contenuto religioso, di circa 700 versi (śloka, quartine di ottonari) divisi in 18 canti (adhyāya, “letture”), nella versione detta vulgata, collocata nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.

La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più prestigiosi, diffusi e amati tra i fedeli dell’Induismo.In tale contesto la Bhagavadgītā è il testo sacro per eccellenza delle scuole viṣṇuite e kṛṣṇaite, eredi dell’antico culto devozionale del Bhagavat, ma è venerato come testo rivelato anche dagli śivaiti e dai seguaci dei culti śākta.

L’unicità di questo testo, rispetto ad altri coevi, consiste anche nel fatto che qui non viene data un’astratta descrizione del Bhagavat, qui inteso come il dio Kṛṣṇa, la Persona Suprema che si rivela, ma questa figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, offrendo all’uditore la sua darśana (dottrina) completa.

Julius Evola fu un attento studioso delle dottrine cosmogoniche e metafisiche dell’India, poiché ne comprese il carattere normativo e universale. Egli focalizzò la sua attenzione in particolare sul Sankhya, sullo Yoga, sul Vedanta, sul Tantrismo e sul Buddhismo. Nel testo “Fascismo Giappone  Zen”, viene sapientemente condensato il pensiero di Evola circa il Giappone, lo Zen e l’Oriente, in un periodo che va dal 1927 al 1975. Inevitabile il significato politico dell’opera del pensatore romano nello sdoganare l’Oriente e il Giappone, in un periodo storico dove l’approccio a quella parte del globo era caratterizzato da sospetto e fascino esotico, senza che vi fosse ancora, almeno nella gran parte degli studiosi, una reale attenzione scientifica. L’Oriente di Evola non è Tagore, non è Shurè, non è il teosofismo anglosassone, non è il Gandhi, e via dicendo.

L’Oriente per Evola sono le Upaniṣad, la Bhagavad-gītā, il Sāṃkhya, il Majjihimonikāyo, i Tantra. E’ essenziale, asciutto, ieratico, imperiale, sorgivo, va dritto alle fonti, con l’intento di ridestare ciò che di essenziale aveva perduto l’Occidente.

Nel poema si narra l’incontro di Arjuna, valoroso condottiero e prototipo dell’eroe, con Krshna, un’incarnazione (avatara) del Divino in forma umana.

La Bhagavad Gita si apre sul campo di battaglia, nella constatazione dell’esitazione di Arjuna che dovrebbe combattere la gente della sua stessa stirpe, e si rifiuta di contribuire a una lotta fratricida.

Il guerriero è colto da uno strano sentimento: un misto di depressione, scoraggiamento e disperazione. A quel punto è incapace di gettarsi nella mischia e chiede aiuto a Krshna. Il Dio prende spunto dall’evento per illustrare al suo interlocutore il significato della vita.

Arjuna, archetipo dell’uomo impegnato nella lotta per farsi eroe, nel momento immediatamente precedente l’inizio della guerra – trovandosi costretto a dover combattere ed uccidere i suoi stessi parenti, mentori ed amici – si lascia prendere da scrupoli umani e si rifiuta di combattere, anteponendo al dovere impersonale dell’azione guerriera (rappresentante il “Sé”) il proprio sentimento personale ed egoico (il suo “io” appunto).

Ne deriva un poema epico, sotto forma di dialogo, che rappresenta perfettamente l’essenza della “vita come militia”, l’idea cioè di una perenne lotta fra le forze caotiche ed infernali, e quelle solari ed apollinee. Queste ultime, sono ristabilite nel loro primato proprio dal sacrificio del guerriero che, offrendosi in una battaglia dal forte valore simbolico, riafferma la vittoria dei valori di Verità e Giustizia.

La Bhagavad-gìtà, parte dal poema epico Mahabharata, il quale, per un occhio esperto, contiene un materiale prezioso non solo nei riguardi della spiritualità delle antiche razze arie emigrate in Asia, ma dello stesso nucleo «iperboreo» di esse che, secondo le vedute tradizionali va considerato all’origine di esse tutte.

Contiene, nella forma di un dialogo, la dottrina impartita dalla divinità incarnata Krshna ad un principe guerriero, Arjùna, che a lei si era rivolto nel momento in cui, colto da scrupoli umanitari e sentimentalistici, non sapeva più decidersi a scendere in campo contro il nemico.

Il giudizio del Dio è categorico: egli definisce «molle vincolo dell’animo», «viltà indegna per un nobile, che allontana dal Cielo» la pietà che aveva trattenuto Arjùna dal combattere. Dunque non in base a necessità terrestri e contingenti, ma a un giudizio divino vien qui confermato il dovere di combattere. La promessa è: «Ucciso, avrai il paradiso, vittorioso avrai la terra. Perciò sorgi risoluto alla battaglia».

L’orientamento, necessario per trasfigurare la «piccola guerra» in «grande guerra santa», in morte e resurrezione trionfale e per poter prender contatto, attraverso l’esperienza eroica, con la radice trascendentale del proprio essere, è dichiarato nettamente da Krshna: «Dedicando a me tutta l’azione con la mente fissa nello stato supremo dell’Io, lontano dall’idea di possesso, liberato dalla febbre mentale, combatti». In termini parimenti chiari si dice circa la «purità» dell’azione eroica, che deve esser voluta per se stessa, al di là di ogni motivazione contingente, di ogni passionalità, di ogni volgare utilità. Le parole del testo sono: «Mettendo al pari piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e sconfitta, armati per la battaglia. In tal modo non vi sarà colpa nella tua azione».

Il testo parte da una distinzione fondamentale: quella fra ciò che nell’uomo è, in senso supremo, spirito, e come tale è incorruttibile e immutabile e ciò che come elemento corporeo e umano ha solo una illusoria esistenza.

Ciò posto, da un lato si mette in rilievo l’irrealtà metafisica di quel che si può perdere o far perdere in una vicenda di combattimento, come vita caduca e corpo mortale (non vi è nulla di doloroso e di tragico — si dice — che cada, ciò che fatalmente è destinato a cadere); dall’altro lato, viene ricordato quell’aspetto del divino, secondo il quale esso appare come una forza assoluta e travolgente.

Di fronte alla grandezza di questa forza, ogni esistenza creata, cioè condizionata, appare come una «negazione».

Può dunque dirsi che detta forza folgori ed abbia una terribile rivelazione dovunque tale «negazione» venga attivamente negata, vale a dire, in termini più concreti; dovunque un impeto travolge ogni vita finita, ogni limitazione del piccolo individuo, o per annientarlo, o per farlo risorgere in alto.

Peraltro il segreto del «divenire», dell’inquietudine fondamentale e del perenne mutamento che caratterizza il mondo di quaggiù, viene dedotto proprio dalla situazione di esseri, in sé finiti, che pur partecipano oscuramente a qualcosa d’infinito.

Gli esseri che secondo la terminologia cristiana si direbbero «creati», secondo quella della antica tradizione aria, invece, «condizionati», divengono, trasmutano, scompaiono, appunto perché in seno ad essi arde una potenza che li trascende, una potenza che vuole qualcosa di infinitamente più vasto di tutto ciò che essi mai possano volere.

Una volta che il testo, in vario modo, ha dato il senso di una tale visione della vita, esso va a precisare ciò che il combattere e l’esperienza eroica debbono significare per il guerriero. I valori si capovolgono: attraverso la morte si manifesta una vita superiore, la distruzione, per chi si porta di là da essa, e una liberazione — proprio nei suoi lati più paurosi l’impeto eroico appare come una specie di manifestazione del divino, secondo l’aspetto già accennato, di forza metafisica, di distruzione del finito — nel gergo di certi filosofi moderni si direbbe: di negazione della «negazione».

Il guerriero che infrange «il molle vincolo dell’anima», che affronta la vicenda eroica «con la mente fissa nello stato supremo dell’Io» raggiungendo un piano in cui sia l’«io» che il «tu», quindi sia paura per sé, sia pietà per gli altri, perdono ogni significato, in tale vicenda può dirsi che assuma attivamente la forza divina assoluta, in essa si trasfiguri e si liberi, infrangendo le limitazioni relative al mero stato umano di esistenza.

Vive l’uomo dell’Azione; senza di essa (come ammonisce Krishna) l’Uomo non è in grado di mantenere il proprio corpo. È l’azione disinteressata che muove l’Uomo Pio, quella Pietas di cui è intrisa l’Eneide, il cui protagonista Enea segue il volere degli Dei rinunciando a sé stesso per la propria missione. Quella rinuncia espressa da Tolkien, da Ulisse nell’Iliade quando ri-scopre la propria natura regale.

La nostra missione consiste nel radicarci nell’ Essere, soprattutto nello sconfiggere un’entità nemica della nostra nazione, rifiutando il mero nostalgismo delle forme del passato, dove si dimentica la nostra essenza a-temporale nel vano tentativo di reiterare una forma anacronistica e, proprio per questo, anti-rivoluzionaria. Al contrario, la Dottrina deve essere proiettata verso il presente, non al passato, trovare la formula per adattare il tutto all’oggi, al nostro quotidiano ed alla nostra epoca.

Esprimendoci per analogia con il nostro poema sacro, noi ci dobbiamo occupare di Iulo più che di Ascanio, traendo dal retaggio dei Padri nuova linfa per il presente. Ormai Ascanio ha compiuto la propria missione “dharmica” ed è proprio costui che presenta ad Enea il suo futuro dalla discendenza di Iulo nel VI libro dell’Eneide. Essere, ritrovare il sovrano dentro di noi, tornare ad Itaca, divenire Soggetti Politici, solo allora incarneremo la vera essenza.

 

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