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Il ReazionariO

Tra i rantoli del mondo che muore

Noi per certo consideriamo con profondo disprezzo la libertà senza leggi dell’era in cui viviamo. Essa è una libertà schizofrenica e rozza, ultimo stato di degradazione dell’umano e naturale ordine delle cose. Eppure questa gode oramai di un moto tale per il quale i suoi stessi ultimi propugnatori e generatori, ma ve ne sono di antichi, ne hanno perso la capacità di comprensione, essendone divenuti oramai delle vittime essi stessi. L’equilibrio necessario tra etica, la dottrina spirituale, e arte politica, la dottrina pratica, è irrimediabilmente compromesso. Si sostituiscono dunque opinionisti ai filosofi, selvaggi ai politici, mercanti ai condottieri. Gli eserciti hanno perso il loro scopo. Le nuove armi sfuggono al controllo dei loro creatori, per velocità e inafferrabilità. Nessuno si sente vinto.

È il mondo reale, non c’è illusione. Non è illusione la rete immateriale che assorbe i residui di anima, tempo ed energie dell’Occidente. Non sono illusioni i seppur invisibili poteri finanziari e i mercati, transazionali, che determinano disordinatamente le sorti dei popoli, eppure imperseguibili e improcessabili.

Chi ha raggiunto un potere non si lascia prescrivere leggi da un popolo, men che mai da principi morali. Quest’ultimo esercizio, anche a fronte di volontà ed energia, è oramai impossibile per chi ne abbia l’impulso. La legge è perduta e ciò ce accade è una conseguenza meccanica di energie enormi e senza contrasto. Ciò che genera è una stirpe di uomini e donne senza carattere, inutili a sé e agli altri.

Il potere fa dunque uso ed abuso di sudditi, propugnando talvolta ad essi l’omeopatica filosofia della ribellione, e compiacendosi esso stesso di moltitudini di groupies e adulatori scodinzolanti, indicatori del successo dell’oggi.  Così tra governanti e supposti oppositori la sinergia è totale, le parti si trattano vicendevolmente a proprio piacimento lamentandosi gli uni degli altri: professori di lotta e di cattedra, sindacalisti in cabina di regia, operai inoperosi, rivoluzionari travolti dal consumo.

La nuova superstizione si è sostituita all’educazione dello spirito. Siamo ridotti a una razza d’uomini che provano piacere a narrare e ad ascoltare eventi fintamente sensazionali, prodigi senza l’ombra di verità, concentrati di nulla. Queste meraviglie, tanto più sono sorprendentemente distanti dal previsto, quanto maggiore è il piacere per le orecchie e gli occhi che vi assistono. Tutto allevia la noia dell’anima, purché nuovo, purché duri poco. E poco importa se esse siano manifestazioni di degrado, mortificazione del giusto.

Il fatto che una simile specie di perversi senza sapienza sia il residuo delle civiltà che hanno occupato la terra per migliaia di anni, non può e non deve essere salutato con odio ed eccessiva amarezza: tutto ciò è stato inevitabile come una stagione che segue le precedenti. Gli imbelli sorridenti che troneggiano sulla modernità non sono in fondo i nostri nemici, come detto sono le vittime di loro stessi. Coloro che chiamano libertà il distruggere l’ordine naturale delle cose, l’aggredire l’immutabile, sono divorati con evidenza dagli abomini cui danno vita.

Il prezzo da pagare, per noi, è comunque altissimo. Dobbiamo vivere un mondo in rovina, impegnato in una caduta di cui non conosciamo la fine. I nostri figli assisteranno e vivranno giorni ancora peggiori. E non c’è una guerra d’armi, come da sempre è stato, che sia oggi terreno per contrastare la decadenza e per dar compimento alla vita. La contesa è tra spirito e aggressione allo spirito. Gli attori che serrano le fila del declino sono parassiti, sicari, banditi, mercanti, politici, artisti, docenti e vigliacchi. Non v’è luce tra di loro. Sono mossi da forze che li dominano e che alimentano al contempo, animando perversamente il movimento della macchina del crepuscolo.

Percorriamo un’esistenza tra gli agi, non camminiamo nel deserto di una guerra. La terra che calpestiamo non è secca, non conosciamo la sete, non conosciamo la fame, non conosciamo la disperazione. Beviamo dunque senza avere sete, mangiamo senza avere fame.

Tutto questo, è certo, verrà spazzato via un giorno. Quello sarà il nostro giorno.

E dovremo farci trovare pronti, nell’anima, nel corpo. Compiacerci oggi della nostra diversità è folle, poiché il nostro nemico, banalmente e gravemente, siamo unicamente noi.

Il nostro avversario è nel noi che ci separa da quel giorno.

L’inverno dello spirito riguarda più noi che altri. Chi non ha un’anima di cui preoccuparsi nulla ha certo da temere. La morsa dell’aridità ha l’aspetto invitante del vizio, della insaziabile pulsione per la novità, della ricerca del consenso. La riserva di antiche pretese ed eredità di valori non è un mezzo di contrasto per tutto ciò, né degno, né efficace.

I valori si esercitano, e si esercitano con la risolutezza della volontà.

Difficile è anzitutto riconoscere il terreno della contesa con le forze che avversiamo. Esse si nascondono nell’insidia dell’abitudine, nella comodità di chi si è riconosciuto differente e magari si è assolto nel fallimento di prove all’apparenza sciocche, illudendosi pronto per le maggiori. 

Altrettanto difficoltoso è garantire continuità alla virtù. Esercitarla solo in taluni momenti, subirne il fascino rimanendone soddisfatti, spendere le energie della gioventù nell’azione a titolo garanzia di un futuro disimpegnato. L’uomo differenziato non può illudersi di trascurare l’esercizio della volontà ogni giorno, rafforzandola e liberandola dall’assopimento cui la modernità la costringe. La volontà è l’arma del nostro secolo, l’immagine del nostro spirito.

La nostra sopravvivenza al disfacimento potrà dunque contare esclusivamente sulle nostre forze, sull’attitudine che possediamo di esercitare volontà viva, coraggio, tenacia, spirito di sacrificio, oltre la tentazione della mollezza, al di là del naufragio del canto delle sirene. Le piccole sconfitte ci rendano più tenaci e meno indulgenti con noi stessi, le grandi ci insegnino a soffrire quello che c’è da soffrire per non lasciare terreno a tutto ciò che avversiamo. Le nostre azioni siano le nostre ombre.

Il Reazionario

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