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Il senso della vita secondo Knut Hamsun

“Il mio sangue intuisce che ho in me una fibra nervosa che mi unisce all’universo, agli elementi”.

Vivere in simbiosi con la natura, seguendo l’avvicendarsi del ciclo delle stagioni, lavorando ogni giorno, duramente, per ricevere il sostentamento dei frutti della terra, coscienti che “Dio è in qualche luogo vicino e mi (ci) guarda…”.
Poche righe che Knut Hamsun forse non approverebbe, in quanto rispondenti a quella esigenza di sintesi imposta dal giornalismo “propagatore di illusioni moderniste”.
Semmai l’esperienza di una vita da contadino sarebbe in grado di rendere al meglio il significato dell’essenza dell’uomo secondo lo scrittore e filosofo norvegese premio Nobel, il cui vero nome era Knut Pedersen.

Si, quell’uomo che “si cura poco del calendario. Ma sa quando le vacche devono figliare; conosce la festa di Sant’Olaf, in estate, alla stagione dei fieni; conosce la Candelora, e sa che, tre settimane dopo, gli orsi di destano dal letargo invernale: a quest’epoca, bisogna che la semina sia terminata. La sua scienza risponde ai suoi bisogni. Un uomo della terra, corpo e anima; un dissodatore senza riposi, ecco che cos’è! Una resurrezione del passato, in marcia verso l’avvenire; una reincarnazione del primo coltivatore, un personaggio antico di novecento anni, e pur sempre giovane!” (da “Il risveglio della terra” Knut Hamsun).

Oppure, utilizzando le parole del suo biografo più eminente: di quel soggetto che “prima ancora di essere un contadino, è un uomo semplice ma non sprovveduto, rude ma non freddo, ostinato e resistente di fronte alle avversità della vita, un uomo disposto a lottare per ciò in cui crede, per la sua famiglia prima di ogni altra cosa. È un uomo che vive in sintonia con la natura, che non ha bisogno di consumare per sentirsi appagato. Non è schiavo delle apparenze, non deve necessariamente esibire i suoi sentimenti, è un uomo tutta sostanza, spirituale” (Tarmo Kunnas).

Una vita difficile e faticosa, indubbiamente, fatta di volontà incrollabile. La volontà di rifiutare la chiamata delle sirene ammalianti della modernità progressista e avere la forza di rinnovare, incarnandolo, il mito dell’uomo della tradizione. La capacità di ascoltare il richiamo delle radici che portano l’uomo, dopo il lungo peregrinare, nell’unico posto dove deve essere: in perfetta armonia con il cosmo che lo circonda e lo include.
L’eternità del fluire del tempo dettata dallo scorrere del ruscello, dalla spiga di grano che nasce, cresce e frutta, dal lavoro nei campi sotto l’immobilità del cielo primaverile. Sono diversi i momenti di poesia raccontati nella prosa di Hamsun, di cui però leggendo nemmeno ci si accorge. Le parole sembrano tutte a loro posto, disposte in modo così naturale da non svelare alcun tipo di artificio letterario. La via più semplice è sempre la più difficile da indicare e percorrere, non però per chi, come Hamsun, riesce a unire romanticismo e realismo, sostanza e spiritualità.

Knut Hamsun ebbe l’occasione di vivere e descrivere il mondo che stava cambiando a causa dell’avvento della modernità utilitaristica, capitalistica e industriale. Gli anni vissuti, quelli della gioventù, negli Stati Uniti gli permisero di entrare in contatto con i stravolgimenti derivanti dalla cultura del “melting pot” tra razze diverse, aggregate o meglio disaggregate sotto il tetto delle fabbriche fordiste della nascente economia liberista.
A questo modello culturale nascente Hamsun si contrappose fin da subito e, dopo un primo disorientamento che lo avrebbe potuto portare ad attestarsi su posizione anarcoidi, scelse il più rassicurante lido del ritorno alle radici.

Per la Norvegia, patria natale e nascente (acquisisce l’indipendenza dalla Svezia nel 1905), Knut si candidò a diventare il cantore, naturale, dei miti di fondazione. Seppur abbracciando quell‘avanguardia neopanteista che ricercava nei paesaggi selvaggi e incontaminati della Scandinavia l’essenza divina, i racconti di Hamsun ci parlano di piccole cose. Una cronaca dell’ordinario che però ha l’obiettivo di esaltare il legame tra l’uomo e la terra, la sua terra. Il collegamento ancestrale tra gli elementi, la natura e l’origine dell’uomo.

Nei racconti di Hamsun ogni proposta di evoluzione verso una prospettiva mercantilista non può che essere destinata al fallimento e allo sradicamento di chi ne vuole essere artefice. Anche per questo l’autore propone come modello di riferimento la cultura germanica, ancora intrisa di richiami alla coesione e al lignaggio del popolo, contrapponendola ai modelli anglofoni che scateneranno in lui un forte sentimento antiamericano.

Il legame con la terra e con le radici permette all’uomo di plasmarsi e di elevarsi. In città, al contrario, l’uomo si contamina e degenera la sua componente genuina. La critica del modello liberale si estende ovviamente anche ai meccanismi economici che consentono il perpetuarsi della logica del profitto. L’invettiva è diretta alle banche e alla finanza speculatrice. Come per Ezra Pound, con il quale Knut Hamsun condivise lo stesso tipo di sorte: essere classificato infermo di mente per venir imprigionato e screditato, anche il cantore di Norvegia pensava che il sistema del credito bancario fosse un’appendice artificiale nata per consentire al capitalismo di vegetare e riprodursi. Usando le sue parole “Nessun uomo su questa terra vive di banche e industria. Nessuno. Gli uomini vivono di tre cose e di nient’altro: del grano che spunta nei campi, del pesce che vive nel mare e degli animali ed uccelli che crescono nella foresta. Di queste tre cose”.

La forza della narrativa di Hamsun è sopravvissuta al tentativo di damnatio memoriae imposto dal cliché culturale dominante in Europa nel secondo dopoguerra, proprio grazie alla capacità di indicare, con semplicità ineffabile, il percorso verso la “via secca” che conduce alla realizzazione dell’essere. Ovvero intraprendere il percorso della pratica, concreta, razionale, logica che porta all’incontro con se stessi. È nel fare che si incontra l’essere.

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