I veda e il sanscrito
A scuola insegnano a ripartire le lingue con una summa divisio tra quelle vive e quelle morte. Le prime sarebbero quelle ancora parlate dai nostri contemporanei, le seconde invece quelle che parlavano gli uomini del passato ma che non si usano più comunemente. La distinzione è notoriamente infelice. Sarebbe meglio parlare di lingue fisse e lingue in evoluzione.
Le lingue fisse sono quelle che, per qualche ragione, si sono fissate in un certo momento della storia e sono state così sottratte a quel destino di continua variazione, per corruzione e contaminazione, che è tipica di ogni lingua parlata. La lingua si fissa perché veicola contenuti di grandissima importanza per una determinata comunità e perciò viene imprigionata nelle maglie rigide di una metrica poetica, lo strumento più comune e diffuso per non perdere informazioni con la tradizione orale. Quando questo accade le genti che hanno in grande considerazione quelle informazioni se le tramandano in modo immodificabile, anche mentre la lingua parlata si trasforma o si estingue. È quello che è accaduto all’Iliade e all’Odissea. Il greco di Omero non si parlava più da molto tempo già all’epoca di Socrate e Platone, ma questo non portò mai nessun greco a tradurre quelle opere nel greco dei loro giorni, che oggi chiamiamo classico proprio per distinguerlo da quello omerico.
Anche in India le cose sono andate così. I sacri mantra della patria cultura degli antichi indiani, i Veda, sono stati composti (o ascoltati secondo il mito) e tramandati in una lingua, il sanscrito, che per questo si è pietrificata e conservata fino ai nostri giorni in modo incontaminato. Veda e sanscrito sono quindi i pilastri della cultura indiana e sono anche le manifestazioni della cultura indoeuropea più antica che ci siano pervenute. Se si vuole indagare oggi su come parlassero, credessero e pensassero gli antichi indoeuropei non si può che partire da questi autentici fossili dell’antropologia culturale. La metafora dei pilastri non è casuale. Per reggere un architrave ne servono almeno due. Al pari per comprendere la civiltà degli Arii si devono affrontare sia i Veda che il loro veicolo semantico. Non si comprendono i Veda senza conoscere quella lingua.
Non a caso le traduzioni di quei libri sono rare e imprecise, secondo molti anche largamente insoddisfacenti. Non a caso i più grandi studiosi occidentali di quelle sapienze hanno sempre ritenuto indispensabile l’apprendimento del sanscrito. Lingua raffinatissima tanto che i suoi primi utilizzatori la chiamavano saṃskṛtam, cioè perfezionata (confectus avrebbero detto i latini). Lingua che conserva tutti gli otto casi dell’indoeuropeo e che coniuga i verbi in decine di modi lievemente diversi tra loro. Una lingua piena di sinonimi e mirabilmente polisemica. Con questo strumento affilatissimo gli antichi ṛṣi ariani composero (o come dicevamo ascoltarono) una miriade di inni rivolti agli antichi dei che avevano accompagnato gli invasori della valle indo-gangetica e mitizzanti quella miracolosa campagna militare.
Ne uscirono quattro raccolte, le quattro Saṃhitā. Le si definì Veda in senso lato, cioè sapienza, saggezza. La parola sanscrita veda condivide la stessa radice del latino video inteso come vedere e quindi, in senso figurato, capire. Le quattro raccolte, formatesi in epoche successive ma tutte precedenti al primo millennio avanti Cristo, presero ben presto il nome di Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda e Atharvaveda. Il primo, il più antico, fa da base anche al secondo e al terzo che si limitano ad aggiungere un certo numero di inni. L’ultimo, il più recente, mostra invece un contenuto più autonomo e forse per questo a lungo fu considerato meno autorevole.
In queste quattro raccolte, che diventeranno quattro libri quando nel quinto secolo avanti Cristo saranno messi per iscritto grazie alla creazione di un apposito alfabeto poi definito devanagari (alfabeto che come dichiara il nome ha attinenza col divino), si riteneva ci fosse tutto quello che serviva agli uomini nobili per realizzare sé stessi e trascendere la propria natura umana. Ma alcune Verità necessitavano di ulteriori specificazioni e di più profonde meditazioni. Di queste si occuperanno per secoli i brāhmaṇa, i membri della classe sacerdotale indica. Il frutto di questo mastodontico lavoro sarà conosciuto con un nome che richiama gli autori: i Brāhmaṇa. Questi testi, che si allegavano fisicamente e concettualmente ai Veda dai quali muovevano, si concentreranno soprattutto sugli aspetti rituali della sapienza originaria. Da questi testi di dettagliata operatività religiosa, discenderà una fase della storia della spiritualità indiana che gli studiosi moderni chiameranno bramanesimo, soprattutto per distinguerla dalla precedente definita del vedismo e di quella successiva, e attuale, che prenderà il nome, notoriamente un po’ riduttivo, di induismo. In questa epoca gli dei protagonisti dei Veda, Varuṇa, Indra, Agni, Mitra lasciano spazio ad un loro collega che, da complementare, si fa protagonista assoluto Prajapati. Nulla in questo mondo è eterno e la speculazione sui Veda (e sugli stessi Brāhmaṇa) prosegue senza sosta anche nei secoli successivi dando origine alla vastissima letteratura upanishadica.
Sono questi i testi più metafisici e filosofici della sapienza indica. Si formano, come suggerisce il termine Upaniṣad, nei circoli esoterici dei saggi ācārya, laddove i giovani discepoli siedono in basso vicino al maestro che pontifica. In questi sofisticatissimi insegnamenti si indovina il fine di tutta la conoscenza prima già contenuta nei Veda ma solo in controluce e quasi imprigionata. Si parlerà di Vedānta, inteso come fine ultimo dei Veda e loro autentico compimento. Soprattutto su questi testi relativamente più recenti (datati comunque tra l’800 e il 500 a.C.) che si svilupperanno le dottrine ortodosse più importanti dell’induismo, le così dette Darśana. Tra queste lo Yoga (con le sue variegatissime tecniche e pratiche) e l’Advaita Vedānta (con la fondamentale identificazione dell’Ātmancol Brahman) occuperanno lo spazio più rilevante nella vita degli indiani e nell’interesse degli studiosi. Tutta la sterminata produzione sin qui in parola viene ricompresa nella complessiva categoria della Śruti, che significa ciò che è ascoltato. Questa sapienza, irrinunciabile per la dimensione spirituale degli indiani, per millenni non sarà fruibile da tutti. Saranno a lungo esclusi dal contatto diretto con queste scritture i membri della quarta casta (quella degli śūdra), i fuori casta (quindi anche gli stranieri), tutte le donne e i ragazzi delle prime tre caste non ancora iniziati dal proprio guru attraverso il rito di passaggio dell’Upanayana che li fa nascere una seconda volta, quella più importante, e li trasforma in dvija.
A tutte queste persone la voce degli dei giunge mediata dai brāhmaṇa o attraverso un’altra categoria di libri sacri gerarchicamente subordinata alla Śruti e che prende il nome di Smṛti. Questi testi sono tramandati di generazione in generazione come i loro parenti nobili ma a differenza di quelli non sono considerati non creati dall’uomo. Tra questi testi sono di speciale importanza, anche ai nostri giorni, i Purāṇa il Mānavadharmaśāstra e gli Itihāsa. I primi essendo dedicati specificatamente a singole divinità del pantheon indù, forniscono informazioni essenziali per l’approccio devozionale al sacro che caratterizza le grandi masse di fedeli, anche indiane. Il secondo, traducibile nel libro della legge di Manu (il primo uomo della storia) fornisce un sostrato giuridico e normativo alla vita consociata del buon indù. Le ultime sono le due celeberrime epopee della cultura indiana che vanno sotto il nome di Mahābhārata e di Rāmāyaṇa.
I due testi sono simili e complementari. Entrambi parlano di storie antiche e ampiamente mitizzate in cui una miriade di nobili personaggi agiscono insieme agli dei incarnati (gli avatāra). Entrambi sono lunghissimi e impressionanti dal punto di vista del numero di versi. Entrambi contengono elementi storici, mitici, religiosi, filosofici e di costume che hanno condizionato l’intera forma mentis degli indiani. In questa immensa letteratura epica una sezione relativamente breve, chiamata Bhagavadgītā (il Canto del Beato), ha avuto un destino glorioso. Considerata da sempre e da tutti i conoscitori di cose sacre un vero e proprio condensato di insegnamenti filosofici e tradizionali, una sorta di compendio di tutta la sterminata produzione sacra indiana tanto che al suo riguardo si è parlato, senza destare scandalo, di quinto Veda.
Il suo protagonista Arjuna si trova difronte ai suoi cugini in un campo di battaglia nel corso di una sorta di guerra civile. È un capitano del suo esercito, ma questa visione domestica lo paralizza al momento di scendere sul campo. Sarà il suo auriga (in realtà Kṛṣṇa avatāra del dio Viṣṇu) a convincerlo a muovere. Lo farà passando in rassegna tutti pilastri della saggezza spirituale di quell’antico popolo. Anche la Bhagavadgītā è scritta in sanscrito. Nessuno oggi parla quella lingua, ma tutti in India conoscono quel libro, tutti possono leggerlo, moltissimi lo leggono, molti lo studiano, alcuni lo vivono. Anche in occidente si avverte questa grandezza. In Rivolta contro il Mondo Moderno, Julius Evola cita la Bhagavadgītā undici volte (sulle circa novanta citazioni complessive dei testi trattati in questo articolo).
Noi potremmo non avere a disposizione tutti i riferimenti e le attitudini necessari per comprendere in profondità questo racconto ma vale la pena leggerne un passo ed entrare in contatto diretto con quella forza espressa nel suo idioma originale, quello dei nostri geniali antichissimi zii paterni: karmaṇy evādhikāras te mā phaleṣu kadācanamā karma-phala-hetur bhūr mā te saṅgo ‘stv akarmaṇ (BG, II, 47).
Il Reazionario